«Vieni al lavoro senza slip». Stalking, titolare nei guai

PADOVA. Trent’anni, residente prima nell’hinterland di Padova, da alcuni mesi nella Bassa padovana, lavora come operaia in un’azienda cittadina alla Stanga. Caratteristiche? Sgobba senza battere ciglio, lavorando con impegno dalla mattina alla sera e, di aspetto, è carina. Tempo di crisi, e forse, qualche datore di lavoro si ritiene pienamente giustificato ad andare ben oltre il proprio ruolo. O, forse, è ancora più semplice: per mentalità non coltiva il rispetto nei confronti delle donne lavoratrici. Ecco il motivo per cui, dopo qualche complimento – inopportuno in un luogo di lavoro – e la conferma del periodo di due mesi di prova con un contratto di un anno (a tempo determinato), ha fatto capire all’operaia-preda, con frasi volgari e offensive, il desiderio di possederla. Frasi pronunciate pure davanti a clienti e colleghi, soprannominando la lavoratrice con gli epiteti inqualificabili di «tette d’oro» e di «chiappette strette».

Avances respinte. E rifiuto ripagato dal proprietario con incarichi gravosi come sollevare scatoloni pesanti fino a 60, 70 chilogrammi prima di tornare alla carica per un nuovo «no». Seguito da malesseri e disagi fisici per la giovane donna che ha trovato sostegno nel sindacato Sls guidato da Vittorio Rosa. E non solo psicologico, tanto da decidersi a firmare una denuncia nella stazione dei carabinieri di Montagnana contro il datore di lavoro, forte dell’appoggio di Sils. Denuncia per minacce e atti persecutori, ovvero stalking: la procura di Padova ha aperto un’inchiesta. Racconta la lavoratrice nella querela: «Lavoro fin dal luglio 2014… Fin da subito il titolare iniziava ad avere delle attenzioni nei miei confronti… Mi invitava a casa sua, ma io puntualmente declinavo l’invito…». Poi il comportamento si fa più spregiudicato, passato il periodo di prova: «Iniziò a palparmi il sedere, chiamandomi con nomignoli volgari… sempre più di frequente anche davanti a colleghi e clienti. La prima volta che mi ha palpata sono rimasta esterrefatta, privatamente gli dissi di non farlo più… Rispose che a casa sua faceva ciò che voleva… Continuavo a dirgli di non farlo, non sortiva alcun effetto, avevo come risposta urla o prese in giro». Scattano i compiti “punitivi” per tentare di domare l’operaia, esposta alle punture di insetti come pulci. Di nuovo il datore la invita in ufficio «per vedere se potevo cedere alle sue avances». Netta l’opposizione e l’obbligo di tornare a quelle mansioni non sue. «Ho cominciato ad avere attacchi di panico, nausee, pianti. Mi sono sentita in confusione fino a contattare il 118» ha confessato la donna. Breve malattia poi il rientro: «Non riuscivo a varcare l’uscio di casa». La trentenne è stata costretta a ricorrere a cure psicologiche e psichiatriche con l’assunzione di antidepressivi: è il novembre 2014, l’ultimo in cui incassa lo stipendio con puntualità. Il datore di lavoro è chiaro: se vuoi prendere i soldi, fa capire, devi tornare a lavorare in minigonna e senza mutande. «Altri colleghi hanno assistito… e mi risulta che comportamenti analoghi il titolare li abbia avuti con altre ragazze» ha concluso nella denuncia. Osserva Vittorio Rosa, il segretario di Sls che sta tutelando la lavoratrice: «Al di là del fatto che le responsabilità le deve accertare la magistratura, la precarietà e la facilità nei licenziamenti messi in atto dal jobs act, aumentano a dismisura queste situazioni».

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